"Dove eravamo rimasti?!" così esordì il compianto Enzo Tortora al suo rientro in onda a seguito dell'infondata e triste vicenda processuale che lo vide, suo malgrado, protagonista.
Con questa citazione torno a dar vita ad uno spazio divenuto silente ormai da lungo tempo. Mai avrei immaginato, però, che questo silenzio sarebbe stato interrotto dalla morte di Kobe Bryant. Impossibile non essere toccati da un tale evento e non dedicare qualche pensiero a Kobe, il mio giocatore di basket preferito assieme a Predrag Danilovic e Manu Ginobili.
A ormai un mese dall'accaduto non si è spento il dolore e l'eco di una tragedia tanto assurda quanto odiosa; lo testimonia l'indicibile commozione che ha pervaso tutta la cerimonia del 24 febbraio allo Staples Center, una sorta di grande funerale laico per dare un ultimo saluto a Kobe.
Ciò che rende più ingiusto quanto avvenuto, è la scomparsa di tutte le persone che erano su quell'elicottero: la famiglia Altobelli, la famiglia Chester, il pilota Zobayan; e Gianna, la secondogenita di Kobe, erede designata, stesso carattere del padre, stesso talento da predestinata, stesso amore per il basket e sicura futura stella della WNBA.
E allora, dove eravamo rimasti con Kobe?
Personalmente, ho bene in mente la serata dello Staples Center nella quale erano state ritirate le sue due maglie Lakers, la 8 e la 24 (unico giocatore ad avere 2 numeri ritirati con la stessa franchigia) e il suo "Mamba out!"; e poi la serata degli Oscar dove fu premiato per "Dear basketball" come miglior cortometraggio.
Ebbene, già da questi elementi si inizia a percepire l'unicità del personaggio. Inutile e superfluo snocciolare in questa sede tutti i suoi record e le sue vittorie cestistiche, tra NBA ed Olimpiadi. Pertanto, diviene naturale raccontare un Kobe personale, o meglio, come è riuscito a far innamorare del basket ed influenzare in qualche modo tutti i suoi tifosi, compreso chi vi scrive.
Per coloro che giocavano a basket, come il sottoscritto, o stava iniziando a giocarci mentre Kobe si affacciava al professionismo, Bryant è stato da subito uno dei giocatori più osservati. Vederlo era una folgorazione, non solo per le sue giocate, ma anche per come si poneva in campo e fuori; tutti volevano emularlo, tutti ne erano affascinati.
Credo che questo sia uno dei motivi per cui la sua scomparsa abbia toccato profondamente così tante persone nel mondo, per cui sembra impossibile accettare pacificamente quanto successo: tutti coloro che sono entrati in contatto con lui, sia pure attraverso il video di una partita o di una conferenza stampa, si sono sentiti in qualche modo influenzati da lui.
Ma ciò era inevitabile: Kobe aveva un'aura magnetica, il suo sguardo trasudava carisma; insomma, per dirla con Stephen King, Kobe Bryant aveva la luccicanza, quella qualità "mitica" per la quale una persona può trasmettere nitidamente i suoi pensieri superando i limiti di luogo e di tempo.
E, dunque, il suo pensiero di voler essere il migliore di sempre, di replicare Michael Jordan, di dover lavorare tanto per realizzarlo, arrivava forte e chiaro a tutti quelli che lo ammiravano; ragazzini "con i calzini arrotolati, bidone della spazzatura nell'angolo […] palla tra le mie mani"[1] che provavano ad imitare le sue giocate. Missione, almeno per il sottoscritto, alquanto impossibile; ma è proprio questo il suo lascito più grande: avere il desiderio di tendere sempre al meglio, e di lavorare e sacrificarsi duramente per raggiungerlo. E' evidente che non si può essere Kobe Bryant, non si può replicare ciò che faceva sul parquet, ma questa attitudine è la via per essere sempre migliori ed è applicabile ad ogni ambito della vita umana.
Kobe è stato tanto amato e rispettato, anche da chi - e sono tanti- non lo sopportava, perché parlava alla parte migliore di ognuno di noi; ci ha dimostrato che si deve amare il proprio lavoro, il proprio obiettivo; che il sacrificio per ottenerlo deve essere sostenuto con passione e gioia.
E ci ha dimostrato pure che, sempre con grande sacrificio, avere un lavoro di alto livello non necessariamente significa dover mettere in secondo piano la famiglia, mai trascurata nonostante la sua ossessione per il basket e gli allenamenti che scandivano nella sua interezza ogni giornata. Tanti ex compagni di squadra raccontano di come Kobe fosse presente al campo di allenamento già all'alba e di come riuscisse comunque a trovare il modo di accompagnare le sue figlie a scuola.
Come molti dei personaggi di questo livello, il carattere di Kobe aveva anche lati più controversi; talvolta è stato anche divisivo, amato ed odiato, come accennato in precedenza.
E come tutti i grandi personaggi, Kobe ha mostrato cosa significa essere leader e sopportare la responsabilità della leadership. La sua carriera nei Lakers, in particolare il suo rapporto con i compagni di squadra ( uno su tutti, Shaquille O'Neal) ha dimostrato come essere un leader non significa solo creare armonia di squadra e distribuire pacche di incoraggiamento agli altri.
Essere leader vuol dire anche sopportare la solitudine nei momenti in cui bisogna scegliere la strada da seguire per raggiungere l'obiettivo, ed indicarla agli altri selezionando coloro che sono in grado di capirla e perseguirla, ed escludendo coloro che non sono su quella stessa lunghezza d'onda.
Di Kobe rimarrà pure la sua grande intelligenza, quella che dopo un grave infortunio gli fece cambiare il modo di pensare e giocare il basket, migliorandosi ed arricchendo ancor più il suo bagaglio tecnico; fu l'inizio di un nuovo capitolo, testimoniato dal cambio numero, dall'8 al 24; e dal nuovo soprannome "Black Mamba" che accantonò il precedente "Showboat".
Il suo pensare avanti, la sua voglia di essere il migliore, lo hanno accompagnato in ogni sua attività, anche oltre il basket: l'Oscar per "Dear Basketball" ne è la prova, come pure i suoi libri di illustrazione per bambini, i tanti progetti ambiziosi della sua fondazione, le sue idee sul basket femminile che certamente avrebbe rivoluzionato.
Per una volta, non è retorica associare aggettivi come unico e straordinario a una persona come Kobe Bryant; persona che, per tutto quello che ha dato e ha rappresentato, e per tutto quello che ancora avrebbe dato, non eravamo pronti a perdere.
Mi piace pensare che, quando una persona di questa caratura ci lascia prematuramente, è a causa degli dei invidiosi degli umani che riescono a competere con il loro livello; perciò li chiamano su, nell'Olimpo, per renderli immortali come loro.
Un altro grande personaggio, Ayrton Senna, diceva che "non conta tanto il momento di permanenza, ma la luce che hai lasciato"; la luce che emanava Kobe è stata così forte che continuerà ad irradiarci ancora.
E dunque, ora è giunto davvero il momento di lasciarti andare, Kobe: ancora una volta, "5 secondi da giocare", palla tra le tue mani "5... 4... 3... 2... 1..."
Mamba 4ever!
2∞24
A ormai un mese dall'accaduto non si è spento il dolore e l'eco di una tragedia tanto assurda quanto odiosa; lo testimonia l'indicibile commozione che ha pervaso tutta la cerimonia del 24 febbraio allo Staples Center, una sorta di grande funerale laico per dare un ultimo saluto a Kobe.
Ciò che rende più ingiusto quanto avvenuto, è la scomparsa di tutte le persone che erano su quell'elicottero: la famiglia Altobelli, la famiglia Chester, il pilota Zobayan; e Gianna, la secondogenita di Kobe, erede designata, stesso carattere del padre, stesso talento da predestinata, stesso amore per il basket e sicura futura stella della WNBA.
E allora, dove eravamo rimasti con Kobe?
Personalmente, ho bene in mente la serata dello Staples Center nella quale erano state ritirate le sue due maglie Lakers, la 8 e la 24 (unico giocatore ad avere 2 numeri ritirati con la stessa franchigia) e il suo "Mamba out!"; e poi la serata degli Oscar dove fu premiato per "Dear basketball" come miglior cortometraggio.
Ebbene, già da questi elementi si inizia a percepire l'unicità del personaggio. Inutile e superfluo snocciolare in questa sede tutti i suoi record e le sue vittorie cestistiche, tra NBA ed Olimpiadi. Pertanto, diviene naturale raccontare un Kobe personale, o meglio, come è riuscito a far innamorare del basket ed influenzare in qualche modo tutti i suoi tifosi, compreso chi vi scrive.
Per coloro che giocavano a basket, come il sottoscritto, o stava iniziando a giocarci mentre Kobe si affacciava al professionismo, Bryant è stato da subito uno dei giocatori più osservati. Vederlo era una folgorazione, non solo per le sue giocate, ma anche per come si poneva in campo e fuori; tutti volevano emularlo, tutti ne erano affascinati.
Credo che questo sia uno dei motivi per cui la sua scomparsa abbia toccato profondamente così tante persone nel mondo, per cui sembra impossibile accettare pacificamente quanto successo: tutti coloro che sono entrati in contatto con lui, sia pure attraverso il video di una partita o di una conferenza stampa, si sono sentiti in qualche modo influenzati da lui.
Ma ciò era inevitabile: Kobe aveva un'aura magnetica, il suo sguardo trasudava carisma; insomma, per dirla con Stephen King, Kobe Bryant aveva la luccicanza, quella qualità "mitica" per la quale una persona può trasmettere nitidamente i suoi pensieri superando i limiti di luogo e di tempo.
Kobe Bryant in azione contro i San Antonio Spurs, una delle rivalità più grandi nei suoi anni ai Lakers |
E, dunque, il suo pensiero di voler essere il migliore di sempre, di replicare Michael Jordan, di dover lavorare tanto per realizzarlo, arrivava forte e chiaro a tutti quelli che lo ammiravano; ragazzini "con i calzini arrotolati, bidone della spazzatura nell'angolo […] palla tra le mie mani"[1] che provavano ad imitare le sue giocate. Missione, almeno per il sottoscritto, alquanto impossibile; ma è proprio questo il suo lascito più grande: avere il desiderio di tendere sempre al meglio, e di lavorare e sacrificarsi duramente per raggiungerlo. E' evidente che non si può essere Kobe Bryant, non si può replicare ciò che faceva sul parquet, ma questa attitudine è la via per essere sempre migliori ed è applicabile ad ogni ambito della vita umana.
Kobe è stato tanto amato e rispettato, anche da chi - e sono tanti- non lo sopportava, perché parlava alla parte migliore di ognuno di noi; ci ha dimostrato che si deve amare il proprio lavoro, il proprio obiettivo; che il sacrificio per ottenerlo deve essere sostenuto con passione e gioia.
E ci ha dimostrato pure che, sempre con grande sacrificio, avere un lavoro di alto livello non necessariamente significa dover mettere in secondo piano la famiglia, mai trascurata nonostante la sua ossessione per il basket e gli allenamenti che scandivano nella sua interezza ogni giornata. Tanti ex compagni di squadra raccontano di come Kobe fosse presente al campo di allenamento già all'alba e di come riuscisse comunque a trovare il modo di accompagnare le sue figlie a scuola.
Come molti dei personaggi di questo livello, il carattere di Kobe aveva anche lati più controversi; talvolta è stato anche divisivo, amato ed odiato, come accennato in precedenza.
E come tutti i grandi personaggi, Kobe ha mostrato cosa significa essere leader e sopportare la responsabilità della leadership. La sua carriera nei Lakers, in particolare il suo rapporto con i compagni di squadra ( uno su tutti, Shaquille O'Neal) ha dimostrato come essere un leader non significa solo creare armonia di squadra e distribuire pacche di incoraggiamento agli altri.
Essere leader vuol dire anche sopportare la solitudine nei momenti in cui bisogna scegliere la strada da seguire per raggiungere l'obiettivo, ed indicarla agli altri selezionando coloro che sono in grado di capirla e perseguirla, ed escludendo coloro che non sono su quella stessa lunghezza d'onda.
Di Kobe rimarrà pure la sua grande intelligenza, quella che dopo un grave infortunio gli fece cambiare il modo di pensare e giocare il basket, migliorandosi ed arricchendo ancor più il suo bagaglio tecnico; fu l'inizio di un nuovo capitolo, testimoniato dal cambio numero, dall'8 al 24; e dal nuovo soprannome "Black Mamba" che accantonò il precedente "Showboat".
Il suo pensare avanti, la sua voglia di essere il migliore, lo hanno accompagnato in ogni sua attività, anche oltre il basket: l'Oscar per "Dear Basketball" ne è la prova, come pure i suoi libri di illustrazione per bambini, i tanti progetti ambiziosi della sua fondazione, le sue idee sul basket femminile che certamente avrebbe rivoluzionato.
Per una volta, non è retorica associare aggettivi come unico e straordinario a una persona come Kobe Bryant; persona che, per tutto quello che ha dato e ha rappresentato, e per tutto quello che ancora avrebbe dato, non eravamo pronti a perdere.
Mi piace pensare che, quando una persona di questa caratura ci lascia prematuramente, è a causa degli dei invidiosi degli umani che riescono a competere con il loro livello; perciò li chiamano su, nell'Olimpo, per renderli immortali come loro.
Un altro grande personaggio, Ayrton Senna, diceva che "non conta tanto il momento di permanenza, ma la luce che hai lasciato"; la luce che emanava Kobe è stata così forte che continuerà ad irradiarci ancora.
E dunque, ora è giunto davvero il momento di lasciarti andare, Kobe: ancora una volta, "5 secondi da giocare", palla tra le tue mani "5... 4... 3... 2... 1..."
Mamba 4ever!
2∞24
Kobe e Gianna Bryant |
Memoriale per Kobe Bryant sorto spontaneamente fuori lo Staples Center a Los Angeles immediatamente dopo la sua morte |
[1]
Passaggio tratto dalla lettera di addio al basket di Kobe Bryant, diventata poi
il cortometraggio “Dear Basketball” vincitore del premio Oscar..